V Giorno della Novena di Natale

20 dicembre

Preghiera

Mi pento, o Sommo Bene, di quante offese ti ho fatte. Mi pento e ti amo più di me stesso. Sento in me un gran desiderio di amarti; questo desiderio tu me lo doni, dammi dunque forza di amarti assai. È giusto che ti ami assai chi assai ti ha offeso. Deh, ricordami sempre l’amore che mi hai portato affinché l’anima mia arda sempre per te d’amore, a te sempre pensi, te solo desideri ed a te solo cerchi di piacere. O Dio d’amore, io che un tempo sono stato schiavo dell’inferno, ora tutto a te mi dono. Accettami per pietà e legami col tuo amore. Gesù mio, d’oggi innanzi, sempre amandoti voglio vivere ed amandoti voglio morire. O Maria, Madre e speranza mia, aiutami ad amare il tuo e mio caro Dio; quest’unica grazia ti chiedo e da te la spero.

3 Gloria

Gesù Bambino, abbi pietà di noi

 

Meditazioni per la Novena di Natale di S Alfonso M de Liguori

DISCORSO V – Il Verbo Eterno da forte si è fatto debole.

Dicite: Pusillanimes confortamini et nolite timere; Deus ipse veniet et salvabit vos.

(Is XXXV).1

Parlando Isaia della venuta del Redentore, predisse: Laetabitur deserta, et invia, et exsultabit solitudo; et florebit quasi lilium (Is. XXXV, 1). Parlava già il profeta de’ Pagani – tra’ quali erano già allora i nostri miseri antenati – i quali viveano nella gentilità, come in una terra deserta, abbandonata da uomini che conoscessero e adorassero il vero Dio, ma piena solamente di schiavi del demonio: terra deserta e senza via, poiché ivi era a questi miserabili ignota la via della salute. E predisse che poi questa terra sì infelice, alla venuta del Messia dovea rallegrarsi, in vedersi piena di seguaci del vero Dio, renduti forti dalla sua grazia contro tutti i nemici della loro salute; e dovea fiorire come giglio in purità di costumi e in odore di sante virtù. Quindi siegue a dire Isaia: Dicite: Pusillanimes confortamini et nolite timere; Deus ipse veniet et salvabit vos. Questo che predisse Isaia, già è succeduto; onde lasciate ch’io esclami ora con giubilo e dica: Allegramente, o figli d’Adamo, allegramente, non siate più pusillanimi; se vi conoscete deboli e non atti a resistere a tanti vostri nemici: Nolite timere, Deus ipse veniet et salvabit vos. È venuto Dio stesso in terra, e vi ha salvati, con comunicarvi forza bastante a combattere e vincere ogni nemico della vostra salute. E come il nostro Redentore vi ha procurata questa fortezza? Egli da forte e da onnipotente si e fatto debole. Ha presa sopra di sé la nostra debolezza, e così ci ha comunicata la sua fortezza. Vediamolo. Ma cerchiamo luce a Gesù Cristo ed a Maria.

Dio è quel forte che solamente può chiamarsi forte, poich’è la stessa fortezza; e tutti i forti da esso ricevono la loro forza: Mea est fortitudo, egli dice, per me reges regnant (Prov. VIII, 14, [15]). Dio è quel gran potente che può quanto vuole, e lo può facilmente, basta che voglia: Ecce tu fecisti caelum et terram in fortitudine tua, …et non erit[tibi] difficile omne verbum (Ier. XXII, 17). Egli con un cenno ha creato dal niente il cielo e la terra: Ipse dixit et facta sunt (Ps. CXLVIII, 5). E se volesse, con un altro cenno potrebbe distruggere tutta la gran macchina del mondo: Potest… universum mundum uno nutu delere (II Macch. VIII, 18). Sappiamo già che con un diluvio di fuoco, quando volle, in un momento bruciò cinque intiere città. Sappiamo che in altro tempo prima di ciò con un diluvio d’acque inondò tutta la terra colla morte di tutti gli uomini, alla riserva di sole otto persone. In somma dice Isaia: Signore, chi mai può resistere alla forza del vostro braccio? Virtuti brachii tui quis resistet? (Is. XL, 10).2

Da ciò si vede poi quanto sia grande la temerità del peccatore che se la piglia con Dio, e giunge a tanta audacia, che non lascia di stender la mano contro l’Onnipotente: Tetendit adversus Dominum manum suam; contra Omnipotentem roboratus est (Iob XV, 21).3 Se mirassimo una formica che se la prendesse con un soldato, qual temerità si stimerebbe! Ma quanto è più temerario un uomo che se la prende col medesimo Creatore, che disprezza i suoi precetti, disprezza le sue minacce, disprezza la sua grazia, e se gli dichiara nemico!

Ma quest’uomini temerari ed ingrati, questi e venuto a salvare il Figlio di Dio, facendosi uomo, e caricandosi de’ castighi da loro meritati, per ottenere ad essi il perdono. E vedendo poi che per le ferite ricevute dal peccato era restato l’uomo molto debole ed impotente a resistere alle forze de’ nemici, che fece? da forte e da onnipotente ch’egli era, si fece debole ed assunse sopra di sé le corporali debolezze dell’uomo, per ottenere all’uomo co’ suoi meriti la fortezza dello spirito, necessaria a superare gl’insulti della carne e dell’inferno. Ed eccolo fatto bambino, bisognoso di latte per sostentarsi la vita; e così debole che da sé non può cibarsi, da sé non può muoversi.

Il Verbo Eterno nel venire a farsi uomo volle nascondere la sua fortezza: Deus ab austro veniet;… ibi abscondita est fortitudo eius (Habac., cap. 3, [3, 4] ). Noi troviamo Gesù, dice S. Agostino, forte ed infermo: forte, mentr’egli ha creato il tutto: infermo, mentre lo vediamo fatt’uomo come noi: Invenimus Iesum fortem et infirmum; fortem, per quem sine labore facta sunt omnia; infirmum vis nosse? Verbum caro factum est (Tract. XV, in Io.). Or questo forte ha voluto farsi debole, dice il santo, per riparare colla sua debolezza la nostra infermità e così ottenerci la salute. Condidit nos fortitudine sua, quaesivit nos infirmitate sua.4 E perciò soggiunge che egli si nominò simile alla gallina, parlando con Gerusalemme: Quoties volui congregare filios tuos, quemadmodum gallina congregat pullos suos sub alas, et noluisti? (Matth. XXIII, 37). La gallina, riflette S. Agostino, per allevare i suoi pulcini s’inferma, e con tal segno si fa conoscere per madre; così fece il nostro amoroso Redentore, coll’infermarsi e farsi debole si fé conoscere per padre e per madre di noi poveri infermi.5

Ecco quegli che regge i cieli – dice S. Cirillo – involto tra’ panni, che non può neppure stender le braccia: Qui caelum regit fasciis involvitur.6 Eccolo nel viaggio che dee fare all’Egitto per ordine del suo Eterno Padre; egli vuole già ubbidire, ma non può camminare; bisogna che Maria e Giuseppe a vicenda lo portino sulle loro braccia. E al ritorno dall’Egitto, come contempla S. Bonaventura, bisogna che per la via spesso si fermi a riposare, poiché il divino fanciullo è fatto così grande di corpo, che non può più esser portato in braccio; ma all’incontro è così picciolo e debole, che non può far lungo cammino: Sic magnus est, ut portari non valeat; et sic parvus est, quod per se ire non possit.7

Eccolo poi nella bottega di Nazaret fatto già grandicello, che tutto s’affatica e suda in aiutare Giuseppe nel mestiere che quegli esercita di legnaiuolo. Oh chi mai si facesse attentamente a contemplare Gesù, quel bel giovinetto che fatica e stenta su d’un rozzo legno, e gli dicesse: Ma voi, amabile garzoncello, voi non siete quel Dio che con un cenno dal niente avete creato il mondo? e come ora da un giorno avete stentato, siete tutto sudato per dirozzare questo legno, e neppure l’avete finito ancora? Chi vi ha renduto così debole! Oh santa fede! Oh amore divino! Oh Dio, oh Dio, che un pensiero di questi ben penetrato dovrebbe, non solo infiammarci, ma, per così dire, incenerirci d’amore. A questo segno dunque è arrivato un Dio? e perché? per farsi amare dagli uomini! Eccolo finalmente nel termine di sua vita ligato da funi nell’orto, da cui non si può sciogliere; ligato nel pretorio alla colonna ad esser flagellato: eccolo colla croce in ispalla, ma che non ha forza di portarla, e perciò va spesso cadendo per la via: eccolo affisso alla croce da chiodi da’ quali non può liberarsi: eccolo in fine che per debolezza già agonizza, vien meno e spira.

E perché Gesù Cristo si fece così debole? Si fé debole, per comunicare così, come sopra si disse, a noi la sua fortezza, e per così vincere ed abbattere le forze dell’inferno, Vicit leo de tribu Iuda (Apoc. V, 5). Dice Davide ch’è proprio di Dio ed insita nella sua natura divina la volontà di salvarci e liberarci dalla morte: Deus noster, Deus salvos faciendi; et Domini Domini exitus mortis (Ps. LXVII, 21). Così appunto commenta il Bellarmino: Hoc est illi proprium, haec est eius natura: Deus noster est Deus salvans; et Dei nostri sunt exitus mortis, id est liberatio a morte.8 Se siamo deboli, confidiamo in Gesù Cristo e potremo tutto: Omnia possum in eo qui me confortat, dicea l’Apostolo (Philip. IV, 13). Io posso tutto, non colle forze mie, ma colla fortezza che mi ha ottenuta il mio Redentore coi meriti suoi. Confidite, filii, ego vici mundum (Io. XVI, 33). Fate animo, figli miei, ci dice Gesù Cristo; se Redentore coi meriti suoi. Confidite, filii, ego vici mundum sappiate ch’io l’ho vinto per voi; la vittoria mia è stata per vostro bene. Avvaletevi ora voi dell’armi ch’io vi lascio per difendervi, che certamente vincerete.

Quali sono quest’armi che ci ha lasciate Gesù Cristo? Sono due, l’uso de’ sacramenti e la preghiera.

Già si sa che per mezzo de’ sacramenti, specialmente della penitenza e dell’Eucaristia, si comunicano a noi le grazie che il Salvatore ci ha meritate. E si vede colla sperienza tutto giorno che chi frequenta i sacramenti ben si mantiene in grazia di Dio. Singolarmente chi spesso si comunica oh che forza riceve per resistere alle tentazioni! La Santa Eucaristia si chiama pane, Pane celeste, acciocché intendiamo che come il pane terreno conserva la vita del corpo, così la comunione conserva la vita dell’anima, ch’è la divina grazia. Perciò il Concilio di Trento chiamò la comunione, rimedio col quale veniam liberati dalle colpe veniali e preservati dalle gravi: Antidotum quo liberemur a culpis quotidianis et a peccatis mortalibus praeservemur (Sess. 13, cap. 2). Dice S. Tommaso, parlando dell’Eucaristia, che la piaga rimastaci dal peccato sarebbe incurabile, se non ci fosse dato questo rimedio divino: Esset incurabilis, nisi subveniret medicina Dei (Opusc. de sacram.).9 Ed Innocenzo III (De myster. Missae) disse che la Passione di Gesù Cristo ci libera dalle catene del peccato, e la santa comunione ci libera dalla volontà di peccare! Mysterium crucis eripit nos a potestate peccati, mysterium eucharistiae eripit nos a voluntate peccandi.10

L’altro gran mezzo per superar le tentazioni è la preghiera fatta a Dio per li meriti di Gesù Cristo. Amen amen dico vobis– disse il Redentore- si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Io. XIV, 14).11 Quanto dunque chiederemo a Dio in nome di Gesù Cristo, cioè per li di lui meriti, tanto otterremo. E ciò anche si vede continuamente avvenire; coloro che sono tentati, e ricorrono a Dio e lo pregano per Gesù Cristo, tutti restano vincitori; e coloro all’incontro che nelle tentazioni – specialmente d’impurità – non si raccomandano a Dio, cadono miseramente e si perdono. E poi si scusano con dire che son di carne e che son deboli. Ma come può lor valere la scusa della loro debolezza, se potendo rendersi forti con ricorrere a Gesù Cristo- bastando per ciò solamente l’invocare con confidenza il suo santissimo nome- non vogliono farlo? Quale scusa, dico, avrebbe colui che si lagnasse d’essere stato vinto dal nemico, se essendogli state presentate l’armi da difendersi, l’avesse disprezzate e rifiutate? Se costui volesse allegar la sua debolezza, non lo condannerebbe ognuno, dicendogli: E tu, giacché sapevi la tua debolezza, perché non hai voluto avvalerti dell’armi che ti sono state offerte? – Dice S. Agostino che il demonio e stato posto in catena da Gesù Cristo; può egli latrare, ma non mordere, se non chi vuole esser morso. Troppo stolto, soggiunge, e colui che si fa mordere dal cane messo in catena: Venit Christus, et alligavit diabolum. Alligatus est tamquam innexus canis catenis. Stultus est homo, quem canis in catena positus mordet. Ille latrare potest, sollicitare potest, mordere non potest. nisi volentem: non enim extorquet a nobis consensum, sed petit (Serm. 197).12 Ed in altro luogo dice che il Redentore ci ha dati tutti i rimedi per guarirci; chi non vuol osservare la legge e muore, muore perché egli medesimo vuole uccidersi: Quantum in medico est, sanare venit aegrotum. Ipse se interimit qui praecepta observare non vult.13

Chi si avvale di Gesù Cristo non è debole no, ma si rende forte colla fortezza di Gesù Cristo. Egli è quello, come dice S. Agostino, che non solo ci esorta a combattere, ma ci dà l’aiuto; se veniamo meno, esso ci solleva; e poi per sua bontà esso medesimo ci corona: Hortatur ut pugnes, et adiuvat ut vincas, et deficientem sublevat, et vincentem coronat (S. August., in Psal 32).14 Predisse Isaia (Cap. XXXV) tunc saliet sicut cervus claudus; cioè che per li meriti del Redentore chi era inabile a dare neppure un passo, avrebbe saliti anche i monti come cervo veloce. Et quae erat arida, erit in stagnum, et sitiens in fontem aquarum; predisse che le terre più aride sarebbero divenute feconde di virtù. In cubilibus, in quibus prius dracones habitabant, orietur viror calami et iunci;15 e che in quell’anime, dove prima abitavano i demoni, sarebbe nato il vigor della canna, cioè dell’umiltà, quia humilis, commenta Cornelio a Lapide, est vacuus in oculis suis; e del giunco, cioè della carità, poiché i giunchi – come commenta lo stesso autore – in certe parti si mettono come lucignoli ad ardere nelle lampade.16 In somma noi troviamo in Gesù Cristo ogni grazia, ogni fortezza, ogni aiuto, quando a lui ricorriamo: In omnibus divites facti estis…, ita ut nihil vobis desit in ulla gratia (I Cor. I, [5,7]). Egli a questo fine si è fatt’uomo e si è esinanito Exinanivit semet ipsum (Philip. II, 7).17 Quasi, dice un autore, ad nihilum se redegit; se evacuavit maiestate, gloria et robore.18 Quasi si è ridotto a niente, si è spogliato della sua maestà, della sua gloria e della sua fortezza, ed ha presi sopra di sé i disprezzi e le debolezze, per comunicare a noi i suoi pregi e la sua virtù; e per essere la nostra luce, la nostra giustizia, la nostra santificazione e ‘l nostro riscatto. Factus est nobis sapientia a Deo, [et] iustitia, [et] sanctificatio, et redemptio (I Cor. I, [30]). Ed egli sta sempre pronto per dare aiuto e forza a chiunque ce la domanda.

Vidi… praecinctum ad mamillas zona aurea (Apoc. I, [12], 13). S. Giovanni vide il Signore col petto ripieno di latte, cioè ripieno di grazie, e cinto da una fascia d’oro; viene a dire che Gesù Cristo è quasi circondato e costretto dall’amore che porta agli uomini; e siccome una madre che avendo il petto ripieno di latte va cercando bambini che succhino e la sgravino da quel peso, così egli anela che noi andiamo a cercargli grazie ed aiuti per vincere i nostri nemici, che ci contrastano la sua amicizia e l’eterna salute. Oh come è buono e liberale Dio con un’anima che veramente e risolutamente lo cerca! Bonus est Dominus… animae quaerenti illum (Thren. III, 25). Dunque se non ci facciamo santi, manca solamente per noi, perché non ci risolviamo a voler solo Dio. Vult et non vult piger (Prov. XIII, [4]). I tepidi vogliono e non vogliono, e perciò restano vinti perché non hanno volontà risoluta di piacere solo a Dio. Volontà risoluta vince tutto, perché quando un’anima si risolve da vero di darsi tutta a Dio, Dio subito le dà la mano e la forza da superar tutte le difficoltà che incontra nella via della perfezione. Questa fu la bella promessa che ci significò Isaia, dicendo: Utinam dirumperes caelos et descenderes, a facie tua montes defluerent! (LXIV, 1). Erunt prava in directa et aspera in vias planas (XL, 4). Alla venuta del Redentore, colla forza ch’egli donerà all’anime di buona volontà, troveranno elle spianati i monti di tutti gli appetiti carnali; e troveranno le vie torte divenute diritte, e le aspre fatte dolci, cioè i disprezzi e i travagli che prima agli uomini erano difficili ed aspri, per mezzo poi della grazia data da Gesù Cristo, e dell’amore divino ch’egli accenderà ne’ loro cuori, si renderanno facili e dolci. Così un S. Giovanni di Dio giubilava in vedersi bastonato da pazzo in uno spedale;19 così una S. Lidovina godea, trovandosi per tanti anni impiagata e inchiodata in un letto;20 così un S. Lorenzo esultava e burlava il tiranno, stando sulla graticola bruciando, e dando la vita per Gesù Cristo.21 E così ancora tante anime innamorate di Dio trovano pace e contento, non già ne’ piaceri e onori del mondo, ma ne’ dolori e nelle ignominie.

Ah preghiamo noi Gesù Cristo che ci doni quel fuoco ch’egli è venuto ad accendere in terra, che così ancora noi non troveremo più difficoltà a disprezzare i beni di fango, e ad imprendere cose grandi per Dio. Qui amat non laborat, dice S. Agostino.22 Non è fatica, né pena il patire, l’orare, il mortificarsi, l’umiliarsi, e ‘l distaccarsi dai diletti della terra, ad un’anima che non ama altro che Dio. Quanto più ella opera o patisce, tanto più desidera di fare e patire. Dura sicut infernus aemulatio; lampades eius lampades ignis atque flammarum (Cant. VIII 6): Le fiamme dell’amor divino sono come le fiamme dell’inferno, che non dicono mai basta. Qualunque cosa non basta ad un’anima che ama Dio.

Siccome all’inferno

Niun fuoco è bastante,

Neppure all’amante

Mai basta il suo ardor.

 

 

Preghiamone Maria Santissima, per mezzo di cui – come fu rivelato a S. Maria Maddalena de’ Pazzi23 – Si dispensa all’anime l’amor divino, ch’ella ci ottenga questo gran dono. Ella è il tesoro di Dio, la tesoriera di tutte le grazie, e specialmente del divino amore, come disse l’Idiota: Thesaurus et thesauraria gratiarum.24

Fonte: hppts: // Intratext.com