Pensiero del giorno 7 aprile 2023
Le ultime sette parole di Cristo
Fulton J. Sheen
La Sesta Parola
Tutto è compiuto
Da tutta l’eternità Dio volle fare l’uomo a immagine e somiglianza del suo Figlio diletto. Dopo aver dipinto i cieli di azzurro e la terra di verde, Dio creò un giardino stupendo, come solo lui poteva fare. Lì vi pose l’uomo, fatto a immagine di suo Figlio. Però, in un modo strano e misterioso, la ribellione di Lucifero riecheggiò sulla terra e l’immagine di Dio nell’uomo si sbiadì e si rovinò.
Il Padre celeste, nella sua infinita misericordia, volle ripristinare nell’uomo la sua antica gloria. Per far sì che il ritratto potesse nuovamente essere fedele all’originale, Dio volle mandare sulla terra suo Figlio, secondo la cui immagine egli aveva fatto l’uomo: in questo modo la terra avrebbe potuto vedere di nuovo come Dio aveva voluto che l’uomo fosse. Nella realizzazione di quest’opera, l’Onnipotenza divina poté far uso, come solo Dio poteva fare, di quegli elementi che erano serviti nella sconfitta, trasformandoli in strumenti di salvezza. Nell’economia divina della Redenzione, gli stessi tre strumenti che avevano cooperato alla nostra caduta furono usati per la nostra redenzione. Al posto dell’uomo disobbediente, Adamo, egli pose l’uomo obbediente, Gesù; al posto della donna orgogliosa, Eva, egli pose un’umile vergine, Maria; al posto dell’albero nel mezzo del giardino, egli pose l’albero della croce. La Redenzione era ora completa. Il lavoro che il Padre gli aveva dato era stato compiuto. Così siamo stati comprati e pagati a caro prezzo. Siamo stati riscattati grazie a una battaglia in cui non furono usate le cinque pietre che servirono a David per uccidere Golia, ma le cinque piaghe, le orribili ferite inflitte sulle mani, sui piedi e nel costato di Gesù; una battaglia in cui non fu usata un’armatura luccicante sotto i raggi del sole di mezzogiorno, ma la carne appesa come uno stendardo rosseggiante sotto un cielo tenebroso; una battaglia il cui grido non era: «Schiaccia e uccidi», ma: «Padre, perdonali»; una battaglia in cui non furono usate delle punte d’acciaio, ma gocce di sangue; una battaglia in cui il perdente fu colui che uccise il nemico. Ora questa battaglia era terminata. Durante le ultime tre ore, Gesù si era occupato delle cose del Padre. L’artista aveva dato l’ultimo tocco al suo capolavoro e, con la gioia dei forti, gridò il canto del suo trionfo: «Tutto è compiuto».
Il suo lavoro era giunto a compimento, ma il nostro? Solo Dio può permettersi di usare quella parola, noi no. Il lavoro di acquisire la vita divina per l’umanità è terminato, ma la distribuzione dei suoi meriti continua. Egli ha compiuto l’opera di riempire i serbatoi della vita sacramentale con le fonti del Calvario, ma l’opera di lasciare che essa inondi le nostre anime non è ancora terminata. Egli ha costruito le fondamenta, noi dobbiamo edificarci sopra. Egli ha terminato l’arca, ha aperto il suo lato con la lancia, si è vestito con il manto del suo preziosissimo sangue, ma ora noi dobbiamo entrare.
Il Signore è alla porta e bussa, ma la maniglia è solo dal nostro lato e solo noi possiamo aprirla. Gesù ha operato la consacrazione, ma spetta a noi fare la comunione. Solo da noi dipende il compimento dell’opera che ci è stata affidata, dalla nostra capacità di adeguarci alla sua vita, diventando altri “Cristi”. Infatti, il suo venerdì santo e la sua passione non potranno giovarci se non prendiamo la sua croce e lo seguiamo.
Il peccato è l’impedimento più grande al compimento di quest’opera, e finché regnerà il peccato nel mondo Cristo continuerà a essere crocifisso nei nostri cuori.
“Vidi il Figlio di Dio passare incoronato di una corona di spine. / «Ma non è già stato tutto compiuto, Signore?», gli chiesi, / «…e tutta l’angoscia che hai già sopportato?». / Egli si volse a me con sguardo solenne e disse: «Non hai ancora capito? Guarda, ogni anima è un Calvario e ogni peccato una croce»” (R. A. Taylor).
Preghiera
O Gesù! La Redenzione è opera tua, la riparazione è opera mia, poiché riparare significa diventare una cosa sola con te, con la tua vita, la tua verità e il tuo amore. La tua opera sulla croce è terminata, ma il mio lavoro è quello di farti scendere dalla croce, poiché “Ovunque ci sia silenzio attorno a me, di giorno o di notte, un pianto mi fa trasalire. / Esso viene dalla croce… / La prima volta che lo udii corsi fuori a cercare. / Allora trovai un uomo crocifisso su di un trono / che era una croce. / Gli dissi: «Ti farò scendere di lì». / Provai a togliere i chiodi dai suoi piedi ma l’uomo mi disse: / «Lasciali, non posso scendere di qui finché ogni uomo, ogni donna e ogni bambino / verranno insieme e mi faranno scendere». Ma io risposi: / «Non posso sopportare il tuo pianto. / Cosa posso fare per te?». / «Va’ per il mondo», disse lui, / «di’ a tutti quelli che incontrerai che c’è un uomo appeso a una croce»” (E. Cheney).
Tu sei sulla croce, ma noi dobbiamo farti scendere. Sei rimasto appeso lì per troppo tempo ormai! Attraverso il tuo apostolo Paolo ci hai detto che coloro che ti appartengono crocifiggono la loro carne e la loro concupiscenza. La mia opera allora non sarà compiuta, fino a quando non prenderò il tuo posto sulla croce. Finché non ci sarà un venerdì santo nella mia vita, non potrà esserci il mattino di Pasqua; finché non indosserò il manto del folle, non potrò indossare la bianca tunica della saggezza; finché non ci sarà la corona di spine, non potrà esserci la glorificazione del corpo; finché non ci sarà la battaglia, non potrà esserci la vittoria; finché non ci sarà la sete, non potrò essere accolto al banchetto celeste; finché non ci sarà la croce, non potrà mai esserci una tomba vuota.
Insegnami, o Gesù, a terminare quest’opera, poiché i figli dell’uomo non possono entrare nella gloria eterna se non attraverso la sofferenza.
Fonte: Le ultime sette parole. Meditazioni per la Quaresima di Fulton J. Sheen (San Paolo Edizioni)